mercoledì 29 giugno 2011

Cicca internazionale


Sono arrivati finalmente i turisti stranieri. L’hanno detto anche in televisione ma ne ho avuto prova ieri. Stavo scrivendo le mie scemenze per questo blog quando si avvicina un signore che, parlando in francese, chiede dove pagare per la sosta del suo camper. Il mio francese è da cicca, lo mastico, ma ci siamo capiti, e ho anche orgogliosamente evidenziato che in quell’area di sosta, che è in Italia, non si paga. Incredibilmente, in coda, arriva un altro signore (tedesco), che in tedesco/inglese mi chiede la stessa cosa, ed io con la cicca inglese rispondo anche a lui. A quel punto scendo dal camper e mi esibisco con qualche informazione in più e torna anche il francese. Ma a quel punto mi è scappato da ridere come un cretino. In quel parcheggio “c’erano: un italiano, un francese e un tedesco…”

martedì 28 giugno 2011

Uno psicologo per favore.

Oggi ho parcheggiato il camper in un posticino bellissimo in riva al lago, all’ombra di enormi e bellissime piante secolari. C’era un chiasso incredibile di uccelli di ogni genere che piroettavano in cielo. Sull’acqua del laghetto galleggiavano cuccioli di gallinelle d’acqua, fagiani e cigni. Di tanto in tanto qualche luccio volava fuori dall’acqua. Il sole brillava sulle increspature dell’acqua.
Rientrando al camper mi accorsi che a terra non c’erano asfalto né erba ma terra umida.
Tolsi le zoccole, aprii la porta e trovai, vicino allo zerbino, le ciabatte da interno. Mio Dio, le avevo messe io! Riuscirò a risparmiarmi almeno le pattine?

lunedì 27 giugno 2011

Il cinquecento


C’erano lo smilzo, il corto, il secco; il quarto proporzionato all’autista.
Il nostro autista e proprietario del cinquecento, alto un metro e ottanta, aveva la guida da formula uno cioè disteso all’indietro. Dietro alla postazione di guida poteva starci solo lo smilzo. Busto trasversale, lo schienale dell’autista sulla pacia e le gambe di traverso infilate sotto il sedile passeggero. Il secco stava in centro, gambe allineate leggermente inclinate a destra per alloggiarle sotto il sedile: insomma come le signorine con la minigonna.  Il corto sul lato passeggero in posizione fetale, sotto il sedile non c’era più posto.
Il passeggero anteriore, il normodotato, con il sedile totalmente in avanti. 
Tranne lo smilzo, nei viaggi brevi, a volte, però, ci si dava il cambio.
Nelle stagioni calde, o quasi, con i finestrini aperti e capelli al vento (eravamo capelloni), la situazione era accettabile. Le portiere erano solo due ovviamente e i tre del sedile posteriore erano incastrati a filetto di sgombro, ma, a parte le aree del corpo a contatto che asciugavamo all’arrivo e la forfora dei passeggeri anteriori che cambiavano proprietario, si viaggiava bene.
In caso di serata positiva, le chiavi della macchina passavano di mano in mano sino a esaurimento richieste. Il problema era che, spesso, c’erano gli amici senza macchina che chiedevano aiuto. Tornavamo spesso a casa in ritardo solo perché o incontravamo troppi amici o si formava la coda perché, ubriachi, alcuni avevano difficoltà nel completare il servizio e anche tutt’e due i problemi. C’era anche una difficoltà oggettiva di spazio, il movimento del corpo procedeva a falce: la schiena bloccata al cruscotto e il bacino che provvedeva al movimento necessario. Alla fine decidemmo di andare a ballare il più lontano possibile per evitare le code, non sulle strade, ma alla portiera della macchina. Dovevano essere luoghi lontani ma non troppo, compatibili con le cinquecento lire di benzina. 
Nel ‘Cinquecento’ si metteva quell'importo e doveva bastare.
Nei mesi freddi purtroppo il problema era più importante. Cinque giovani vitelli (vedi: lo spritz) che scaldano una stalla di un metro e trenta per uno e venti per uno, generavano tre metri cubi di vapore acqueo a minuto. Il passeggero anteriore era impegnato a pulire il vetro anteriore per consentire la visibilità; si aprivano leggermente i finestrini che immettendo aria gelida, provocavano vortici bollenti e gelati che congelavano il sudore, a volte nevicava all’interno dell’abitacolo.
Il Riccardo, proprietario del cinquecento, cominciò, come tanti altri, ad apportare delle modifiche.
Come aveva fatto per il suo sedile, rese ribaltabile anche quello del passeggero, evitammo i dolori di schiena, e ci fu un’impennata di richieste di chiavi,  ma a quel punto avemmo in cambio consumazioni.
Modificò i vetri posteriori consentendo un’apertura a compasso che evitasse l’apertura dei finestrini nel periodo invernale. Divenne utile per l’estate, aiutava la circolazione dell’aria, ma d’inverno si scoprì che il congelamento passava alle gambe dei passeggeri anteriori, troppa uscita di aria impediva di scaldare sufficientemente quella in ingresso, era comunque una miglioria.
Un giorno arrivò in commercio il cinquecento “L”. Sì, l’elle stava per Lusso: sedili ribaltabili per tutt’e due i passeggeri anteriori, vetri posteriori con apertura a compasso, tettuccio in tela apribile, paraurti con tubolare a protezione dei fanali  e leva del cambio anatomica (non ho mai capito cosa significasse).
Il tettuccio apribile fece esplodere la mania di viaggiare in piedi fuori dal tettuccio: immaginate quei quattro esseri con facce inebetite dal vento, ma sorridenti, coi moschini sui denti. Partì il consumo di chewing-gum. 
La comodità dei due sedili ribaltabili consentiva i cambi di posizione alle coppiette. Era frequente sentire lei dire: Aspetta! Era sempre il cambio anatomico non il ragazzo. Scoppiò la mania di sostituire il pomello con altre forme.
Fu comunque la rivoluzione e anch’io, finalmente, potei acquistare il mio cinquecento: L naturalmente, di color amaranto. Il colore amaranto suona bene, ma in realtà era il colore dell’antiruggine. Io credo che fosse proprio antiruggine perché la macchina doveva costare poco e quella ‘elle’ aumentava le spese. Cinquecentonovantacinquemilalire, erano tantissime, circa dieci mesi di lavoro (come oggi).
Naturalmente, l’acquisto dell’autovettura da parte di qualcuno della cinquina spezzava il gruppo in due, poi in tre. Fu come rompere il termometro a mercurio. Inizialmente facemmo una specie di albero genealogico per tenere il conto dello sviluppo della compagnia, poi trovammo morosa.
Buon viaggio!

La Donna come Dio, una e trina

La grandiosità della donna sta nel fatto che, come Dio, è qualcosa di diverso in base al ruolo che assume.
Riesce a completare la grandezza teologica della religione, rappresentando anche il suo opposto, Belzebù.

Donna Belzebù.
Questa veste è occupata ovviamente della “suocera”. Non la suocera del genero, bensì della nuora e devono vivere sotto lo stesso tetto, solo così può avvenire la metamorfosi.
Ricordo il mio vecchio prete del paesino: in tutte le prediche sbeffeggiava le donne e le maltrattava, ricordo le mitiche frasi: “Queste damigelle, madamigianelle, …!” ma, importante, diceva sempre a tutti i giovani del paese: “Ricorda che non c’è al mondo tanta cattiveria quanta ce ne può stare in una donna!” Credo alludesse proprio alle donne suocera. Questa ex mamma che si vede sottrarre il figlio (di oltre 30 anni) proprio quando stava completandone l’educazione, e da una sciacquetta qualsiasi. Vede la creatura allontanarsi, cambiare modo di vestire e di mangiare, fare cose che prima non avrebbe mai fatto e che forse ama più la sciacquetta che lei. INACCETTABILE!
A prova di quanto dico racconto solo un fatto su mia nonna, quella buona che ci raccontava le favole e che adoravamo. Era in punto di morte, gli avevano regalato una bottiglia di ‘marsala all’uovo’, merce buonissima e preziosa in quei tempi. Chiamò sua nuora convivente, si fece vedere mentre ne succhiava un sorso a canna, quindi leccò tutto il collo della bottiglia e disse: “Deso vojo vedare se te vien a robarmea quando dormo!”

Donna Madre, e Dio padre.
Il volto di Dio nel dipinto di Michelangelo della Cappella Sistina che dà la vita ad Adamo, rappresenta una sintesi meravigliosa della bontà, comprensione e dolcezza, di Dio Padre. Quella sintesi ogni figlio maschio la vede mella propria madre. Un figlio non ha alcun dubbio sulla perfezione, bontà e grandezza della sua mamma, mai. Tu la mi mamma te tu hun la tocchi ha hapito. Tu mia mamma la lasci stare! (Urlando) TU MIA MAMMA LA LASCI STARE! Con le figlie c’è qualche distinguo, fra donne si capiscono.

Donna figlia e Figlio di Dio.
Se la figlia fa un complimento alla madre, questa chiede di cosa abbia bisogno. Quando la figlia fa gli occhioni al padre e ottiene ciò che vuole, questi rinfaccia alla moglie che la figlia vuole più bene a lui. Sappiamo da padri che una figlia non è perfetta, ma nemmeno Gesù Cristo lo era. Anche Lui, ad esempio, litigava con i preti e gliela fecero pagare cara; ha litigato parecchio nel Tempio con i commercianti; non disdegnava le buone mangiate in compagnia, arrivò anche a moltiplicare pani e pesci per completare una bella abbuffata; e quella volta, alle nozze di Cana, ragazzi, trasformare l’acqua in vino, li ha seccati tutti. Insomma non perfetti figlia e Figlio, ma gli vogliamo bene.

Donna moglie e Spirito Santo.
Come moglie la donna si moltiplica. C’é quella prematrimoniale, quella dei primi sette anni, poi dei secondi, poi dei terzi, magari anche solo dei primi mesi, sono tutti personaggi molto diversi.
Il terzo elemento della Trinità, poco descritto, poco raccontato si attaglia alla moglie perché nell’iconografia religiosa é rappresentato come un uccello. Ecco, è tutto qui: la moglie, l’uccello, lo rompe.
Auguri e figli maschi!
(2° comandamento: Non nominare il nome di Dio invano)



sabato 25 giugno 2011

Cetriolo e mozzarella

Ieri sera mi sono fatto una pastasciutta meravigliosa: Sugo pronto di pomodorini, aggiunta di pisellini piccoli in scatola, peperoncino macinato e finale con aglio fresco tagliato fine con colata di olio extra vergine di oliva. M’è venuta talmente buona che a un certo punto ho sentito che stavo per piangere dal piacere. Roba da psicopatici.
Ultimamente mi sono messo a dieta a modo mio: semplicemente mangio tutto quello di prima ma ho ridotto le dosi. La cosa sta funzionando, ma il bello è che, all’avvicinarsi dell’ora dei pasti, monta un appetito, quasi fame, che mi da piacere nel nutrirmi. Tutto diventa tremendamente buono. Questa cosa l’avevo scoperta alcuni anni fa.
Mia moglie ed io eravamo in una bellissima caletta in Sardegna, ed era ora di pranzo. Distesi sulla spiaggia bianca, circondati dal granito rosa, di fronte la Tavolara e un mare turchese cromaticamente degradante sino al blu intenso. Non volevamo staccarci e decidemmo di mangiare quello che mia moglie aveva in borsa, lei mangia ogni due ore e porta sempre con sé dei viveri, quel giorno poi era il primo dopo l’arrivo e la sera precedente avevamo mangiato solo della minestrina perché scombussolati dal viaggio in mare. 
Avevamo in una mano del pane vecchio, con l’altra un cetriolo, l’altra della mozzarella: nel senso che per non sporcare il cibo tutt’e due avevamo in una mano il pezzo di pane, ma lei teneva il cetriolo ed io la mozzarella e ci scambiavamo il mangiare. Ricordo che il digiuno della sera precedente e l’appetito che ne era conseguenza rese quel cetriolo meraviglioso, e la mozzarella divina, per questo ho adottato la dieta a base di riduzione delle razioni (capisco ora che lei il cetriolo ed io la mozzarella, … ormai l’ho scritto).
Fatte tutte queste premesse, trovarmi però a piangere per la bontà di una pastasciutta era davvero eccessivo, addirittura mi è venuta la goccia al naso. 
Fortunatamente ho capito cosa era successo: avevo messo troppo peperoncino.
Buon appetito.

Eeeh già!


Un mese di tensione all’idea della visita per niente piacevole; la tensione per il timore che ci fosse ancora qualche recidiva, che, ancora con i ferri infilati, quando il medico mi disse: Tutto a posto! Urlai un flebile ma potente: Yahuuuuu! Roba da espellere la ferraglia e schizzarla verso il soffitto.
Una filosofia di vita che ho sposato in pieno è che non vi sia male senza bene e viceversa. Questa mia situazione di salute me la conferma.
Una grave malattia sembra una cosa tragica. La gioia però della notizia positiva, ancora sei mesi di libertà, era pari a quella volta che la morosa mi disse per la prima volta di sì; a quando andai all’asilo col grembiulino nuovo e più bello di tutti; al giorno del congedo dalla naja, alla nascita dei miei figli, ecc.
Superate quelle tappe importanti della vita che sono patrimonio della giovinezza, dopo c'é solo lo scorrere del tempo o forse non ci si emoziona più.
Invece una grave malattia mi da felicità immense ogni quattro mesi: a ogni visita con esito positivo.
Quando mi sento un po’ giù o annoiato penso al fatto di aver superato il controllo e mi torna l’allegria.
Adesso che ci penso i prossimi controlli saranno ogni sei mesi. Mi sono perso una gioia l’anno! Eeeh già, già, già.
Si torna a spasso tranquilli

martedì 21 giugno 2011

Ramblas


Domani avrò una visita di controllo: ho i nervi a fior di pelle!
Innanzitutto la visita è molto fastidiosa e c’è ovviamente la possibilità che si trovi ancora qualcosa.
Dico ancora, perché ho subito sette interventi in quattro anni, e le probabilità sono alte.
La prima cosa che comunque m’irrita è il fatto d’essere preoccupato. In tutti gli interventi non ho mai sentito dolore, ho sempre trovato modo di divertirmi guardando i lati positivi della situazione ed ho sempre avuto tante cose da raccontare ad amici e parenti. Potrebbe anche essere che vada tutto bene, dall’inizio della malattia non ho mai superato i sei mesi senza un intervento, ora sono già arrivato a un anno: è positivo.
Mi rendo conto che la mia nuova vita, in pratica sempre in ferie, mi ha tolto quel lustro per cui: se tutto va bene siamo rovinati, mi dava stimolo a vivere la vita in allegria.
Ricordo il primo intervento. C’era un camerata (nel senso che dormiva nella stessa camera a quattro posti) che mi raccontò di essere caduto da una semplice scaletta a pioli, di aver rotto due vertebre e quattro denti, e dovette mangiare omogeneizzati per quasi un mese.
Alla fine del racconto arrivò un’infermiera per l’iniezione e questi la apostrofò: “Sa che sono caduto da una scala a pioli e mi sono rotto due vertebre e quattro denti, ….”
Il giorno dopo, appena operato, arrivarono i medici, e, al loro ingresso, il camerata li apostrofò: “Sapete che sono caduto da una scala a pioli e mi sono rotto tre vertebre…”. Arrivò l’infermiera del primo turno e questi disse: “Sai che sono caduto da una scala…” Poi arrivò l’infermiera del secondo turno: Sai che…, poi la signora delle pulizie, quindi il nuovo paziente operato, poi tre parenti dell’altro camerata, poi mia moglie, poi mia figlia, poi mio figlio. Potrei raccontare parola per parola tutta la storia.

Al secondo intervento mi ricoverarono in una camera a due letti. Significa quasi lusso. Con me era ricoverato un “Don” nel senso di Prete. Così come amo scrivere, molto di più amo parlare e adoro quelli che ascoltano senza interrompere, ma una bella discussione con un prete la aspettavo da anni. Dico: Come va? Come va? Mi risponde, all’inglese. Ha già fatto l’intervento? Chiedo, e mi dice: Bella giornata, vero! Non mi dilungo, era quasi totalmente sordo, urlare per capirsi.
Fu il ricovero più monotono e barboso della storia, per la prima, e ultima volta, desiderai di tornare a casa.
Al terzo ricovedro, ormai afecionado,
oganizzai il concorso: “Borsetta Alba Chiara”.
Quasi tutti gli operati facevano la ‘Rambla’ di urologia (avanti e indietro nel lungo corridoio del reparto) con la borsetta, (quella del catetere): molto rossa significa appena operato o a lunga degenza; poco rossa in via di guarigione.
Premiavamo quelli con borsa rosso scuro ma sorrisino di circostanza e quelli con borsa chiara ma faccia nervosa. Il primo era il premio “Ottimista dei reparto” il secondo era il premio “ti tocca tornare a imbiancare”.
Beh insomma mi sono sempre divertito però perché diavolo sono nervoso, cosa vuoi che succeda, al massimo passeggerò alla rambla di urologia.
Un bicchiere di rosso a tutti!

sabato 18 giugno 2011

VUVUZELA e CLINTON

Il gambo delle foglie di zucca è un gambo piuttosto lungo, può arrivare a un metro di lunghezza  e totalmente cavo all’interno. Da piccoli noi li usavamo come trombette proprio come le vuvuzela, Tagliavamo in alto appena soitto la foglia, in basso alla base, un taglio nella parte stretta in alto in verticale e il gioco era pronto. Soffiando dal lato del taglio si otteneva un suono monotono come le trombette dei mondiali di Cape Town. Naturalmente ogni gambo/vuvuzela aveva un tono diverso, noi, nove fratelli, avevamo addirittura due note in più.
Mio padre invece usava questi gambi per prelevare il vino dalla sua botticella. Nel sottoscala di casa c’era una botte che ogni anno era riempita di puro, sano, unico, Clinton. C’era il rubinetto nella parte anteriore per versare nella caraffa da mettere in tavola durante i pasti e sopra il grosso tappo di sughero. Era molto semplice togliere il tappo superiore, infilare il gambo di zucca e succhiare, ed è quello che faceva spesso mio padre tra un pasto e l'altro e durante l'happy hour. La botte conteneva circa duecento litri di vino. Il consumo giornaliero era: un litro a pranzo, uno e mezzo a cena e i prelievi continui giornalieri pari a un’ombretta e mezza ogni due ore.  insomma quattro litri il giorno. Duecento litri da dividere per quattro al dì fanno cinquanta giorni. Quella botte resisteva per 365 giorni. Gesù moltiplicava pani e pesci e trasformava l’acqua in vino? Mia madre era uguale! Ogni giorno, già pratica, la vedevo partire con la caraffa da tre litri e mezzo di acqua e versarla nella botte di Clinton, il consumo totale giornaliero netto diventava mezzo litro. Verso la fine riduceva l’entità del miracolo.
Va detto in difesa dell'intenditore di vino che era mio padre che il Clinton è un vino a bassa gradazione alcolica, difficilmente raggiunge dieci gradi, infatti, né è proibita la commercializzazione, ma il sapore, l’odore, il colore sono talmente potenti, che la gradazione passa in secondo grado. Il sapore è talmente forte che non ci sono aglio o cipolla che reggano, vince lui; L’odore è talmente inconfondibile che persino le rane ne vanno matte (vedi: ciucche e bocce); il colore è talmente nero che la seppia impallidisce e la macchia di clinton resiste a candeggina e dash in contemporanea.
Per questo motivo la continua immissione di liquido neutro era pressoché ininfluente.
La meraviglia da stadio avveniva quando, dopo prelievi di clinton di gruppo, i partecipanti soffiavano in compagnia nei rispettivi gambi/vuvuzela, ebbri di clinton. Ma quale waka waka?
Propongo una raccolta di firme per il ripristino commerciale del “Clinton”.

Sacramento vegnì qua tuti!

Ritacarlobepoarminioottorinojelmovalerianonatalinodiana: Sacramento vegnì qua tuti!
Nove figli rendono complicato ricordare il nome del singolo. Mio padre, non riuscendo a centrare il nome giusto alla prima chiamata, spesso elencava in ordine di nascita il nome di tutti in rapida successione. Rendendosi conto che la cosa si complicava, chiudeva con: “Sacramento, vegnì qua tuti” in mezzo a tutti aveva sicuramente a disposizione quello che gli interessava. Con molta delusione devo dire che, essendo tra gli ultimi, non ero mai io il chiamato, mia sorella più giovane, quella grassa, pure, ma non arrivava mai in tempo all’appello, infatti, di solito, non partiva nemmeno.

venerdì 17 giugno 2011

El timoséo

Dopo anni sono tornato a visitare la Rocca di Angera: sono rimasto positivamente colpito, è tenuta benissimo.  
C’è la torre da raggiungere e da cui si gode un panorama davvero incantevole.
C’è la grande sala affrescata; molti saloni contengono una mostra incredibile di bambole antiche, marchingegni meccanici per generare musica o anche solo da intrattenimento e antichi giochi. 
Alcune sale sono addobbate con l’intento di far rivivere la vita di quei tempi con descrizioni molto puntuali e approfondite. All’esterno giardini, orti, chiesetta, fontanella e molto altro. Uscendo dal cortile centrale noto anche una piccola mostra di antichi attrezzi, tra cui un torchio da vino enorme, “Il più grande di Lombardia”, alcuni aratri e là in fondo lo vidi: ‘el timoséo de me sio Angin’. L’immagine di mio zio Angelo, detto Angin piazzato davanti a casa, paonazzo, con quel palo accanto che urlava: Vvvvegnì fffffora che ve cccccccccccccccopo tuti! Mi riaffiorò improvviso.
Timoséo è un palo che si collega alla coppia di ruote anteriori di un carro se il traino è a due animali: in sostanza segue l’andamento degli animali e se questi girano, il palo muove le ruote anteriori, insomma come un volante.
Gli animali nel nostro caso non sono ovviamente cavalli ma mucche: quelle che scaldano la sala da intrattenimento d’inverno (vedi: Lo spritz); che danno il latte per allevare figli; che trainano il carro da lavoro; che fanno i vitelli che quando si vendono ci si comprano le scarpe, due foulard, un cappello, tre paia di zoccoli, una tovaglia, un catino nuovo per il bagnetto dei bambini (vedi: bea grassa).
Zio Angin invece è uno dei quattro fratelli di mio padre: uno scappò negli Stati Uniti per sfuggire alle grinfie della madre, un altro finse di studiare da prete per lo stesso motivo ma alla laurea invece che il prete fece l’insegnante; gli altri tre rimasero in ‘Famiglia’ : il primogenito, Giovanni ovviamente detto Nani, mio padre e l’ultimogenito Angin.
Angin era il viziato della famiglia: balbettava,ed era per timidezza; era il più alto di tutti, e a quel tempo essere così alti era un handicap. Era viziato perché il più giovane e per la nobiltà della famiglia: avevamo uno zio Vescovo che, però, era morto.  Sposò una donna che era ovviamente la sua antitesi: Forte, volitiva, cattiva e pretenziosa che lo comandava a bacchetta, di nome Italia. Questo nome che insieme a Europa e Oceano fanno presumere genitori o straricchi o molto particolari dimostra che non siamo di fronte ad un tipo semplice, non lo era.
Per capire il personaggio racconto di quando vidi uscire di corsa suo figlio da casa. Tentò di richiudere la porta dietro di se per ritardare l’uscita dell’inseguitrice, la mamma, che invece la riaprì violentemente. Vidi un breve inseguimento, poi il lancio di un mattone che colpì in piena schiena mio cugino che emise un gemito strozzato. Non subì conseguenze, lui correva a trenta l’ora, il mattone a quaranta, quindi un impatto a dieci l’ora, … credo.
Quando i tre fratelli decisero di dividere casa e terreni dopo la morte del nonno, Angin il viziato ma, peggio, il marito di Italia volle il meglio.
Ebbe il corpo centrale della casa, quello più bello, che comprendeva:  ponticello di legno sul fiumiciattolo, giardinetto all’italiana, salone d’ingresso con cucina, ampia scala di legno che portava al piano rialzato,  salone ricevimenti e altare per la messa, camera  da letto. Davanti casa pergolato artistico sulla fontanella perenne. Poi i nove campi da dividere in tre e lui volle i tre vicini a casa.
Scoprì presto che, forse, sbagliò: I fratelli poterono allargare l’abitazione con deposito e granaio attigui all’abitazione, lui fu costretto a erigerlo oltre il cortile.
Ritenne non essere lui a sbagliare ma che i fratelli lo volessero buggerare: ottenne una fetta di campo anche nei terreni più lontani, perché lì scorreva un fiume più ricco d’acqua e riteneva fossero più produttivi, una striscia di terra larga circa quattro metri lunga quanto il campo. Nacque così ‘El campo de a pesa’(leggere con esse forte, come fosse scritto pessa, cioè pezza)’. Quel campo, con la pezza, lo ricordo bene: se da una parte c’era frumento, la pezza era seminata a granturco, se il campo a granturco, la pezza a prato.
Lo zio non era insomma convinto di avere fatto le scelte giuste e per questo non voleva essere costretto e decidere la divisione ufficiale delle proprietà.
Ogni anno arrivava il Geometra Bonato, per fare le “volture”, cioè registrare le divisioni accordate, ma lui, non essendo convinto, si opponeva a questa registrazione ufficiale e ogni anno avveniva la sceneggiata.
Mia madre che dice a mio padre: xe rivà el Geometra! Subito lo sbattere della porta dello zio Angin che correva al deposito di là dal cortile: prendeva "el timoséo," si piazzava tra casa sua e il pergolato e, paonazzo, urlava balbettando: Vvvvegnì fffffora che ve cccccccccccccccopo tuti! Mio padre, il paciere, usciva, gli diceva qualcosa e si avviava alla casa del fratello maggiore Nani. Lì c’era il geometra, dopo un po’ se ne usciva si avvicinava a zio Angin e gli diceva: tuto a posto, el se ndà via! Questi riportava el timosèo al deposito e se ne tornava a casa. Ogni anno così.
Desiderai sapere cosa fosse un geometra. Le carriere più importanti io ritenevo fossero innanzitutto il prete, questa era la carriera migliore da intraprendere, poi il medico ma anche  insegnante. Non conoscevo il personaggio Geometra. Un giorno ebbi la fortuna di conoscerlo.
Lo zio Nani mi chiamò per farmi assaggiare i ‘bigoi in salsa’. Ne assaggiai uno: mi parve buono, continuai. Toglievo le spine delle sarde, poi, ovviamente, scartavo la cipolla e riponevo tutto sul bordo del piatto. Poi inventai un metodo più efficace: succhiare il bigoeo. Era una cernita efficace di quello che non mi piaceva, che poi era il sugo: a fine risucchio, dito sulle labbra a togliere la merce di scarto e posizionamento sul bordo del piatto. Il risultato a fine pasto era certamente qualcosa di esteticamente artistico, un bellissimo corollario di spine di pesce, cipolla, e tracce di acciughe intorno ad un piatto che comunque era rimasto vuoto, almeno in centro. 
In quel momento un: Naniii!!! Ostia te si sa qua! Vien che go da finire i bigoi! Era arrivato “El Geometra”.
Era un uomo robusto, spalle larghe, quasi beo grasso, capelli bianchi ma tutti: non come lo zio che era piccolo, pancia trasbordante con forma a pagliaio, calvo; zio Angin, alto, secco e ricurvo; mio padre normale ma magro. Il Geometra era decisamente messo meglio. Presi in considerazione anche quella carriera: continuando a ritenere quella di prete la migliore.
Stavo studiando il personaggio: ben messo; sicuro di sé; borsa in cuoio, mai vista prima, piena di carte con le scritte. Carte così le avevo viste solo nel cesso in fondo al cortile ma tutte tagliate a quadrotti, e non capivo mai il senso di quello che vedevo scritto. Lui invece parlava mostrando carte e spiegando. Sembrava proprio che la sapesse lunghissima.
In quel momento sentii porte sbattere, grida di donne e il solito urlo:” Vvvvegnì fffffora che ve cccccccccccccccopo tuti!”
Poco dopo arriva mio padre, saluta il geometra, si fanno un paio di tazze di clinton parlando del più e del meno, quindi esce, si avvicina a zio Angin, gli dice qualcosa, questi si avvia a riporre el timoséo, e rientra a casa dall’Italia.
E la storia continua.

domenica 5 giugno 2011

San Crispino

5 giugno,
Lascio Bòvegno e mi avvio verso la Val Trompia. Ci sarà il Passo Croce Domini (1892mt s.l.m.) e bei paesaggi montani.
Sono anni che non vado in alta montagna, e la cosa mi attira, poi ho il camper che, giovane di strada (meno di 40.000 km) a luglio compirà 18 anni, e va svezzato. Gli uomini li portavano al bordello, quelli che hanno chiuso poco prima che toccasse a me, i Camper si portano o a Capo nord o in alta montagna. 
Il navigatore con opzione altimetro, e via.
La val Trompia è una valle piuttosto stretta e le montagne altissime. Per un pò, di paesaggio, neanche l’ombra, il navigatore sembra impazzito, ero quasi a mille metri di altitudine che riprecipita a 800, evito di dargli retta. A un certo punto la vallata si apre, altitudine 1400mt. Il panorama è davvero splendido, ancora montagne altissime ma coperte solo di verdi prati, bianche chiazze di neve qua e là, e la frescura.
D’improvviso mi gira la testa: guidando non è bello, non mi succede mai, che sarà? Deglutisco, due piccoli boati e mi ritorna l’udito. In effetti il camper era stranamente poco rumoroso. Era l’altitudine.
Arrivo a uno spiazzo con bar, e in alto campeggia 1800 mt s.l.m., mi fermo.
Sento uno strano odore di bruciato: la salita non era male, si sarà surriscaldato il motore.
Guardo il panorama e noto che a lato strada non ci sono scarpate, sono proprio burroni, non vedo la terra oltre il ciglio, non ho nemmeno voglia di avvicinarmi a controllare, riparto. Arrivo a uno spiazzo molto grande che vedo senza alcuna protezione o recinzione che pero si affaccia sulle cime, posto molto bello, l’altimetro mi dice 1930 mt.: oh bella, è oltre l’altezza del passo! Mi avvicino al bordo dello spiazzo, si fa per dire mancavano ancora tre metri, ma mi coglie una specie di panichino, queste sono altezze da paura.
Risalgo e mi accorgo che ho le ginocchia un po’ ballerine e le mani sudate, pochi metri e mi sparisce l’asfalto: Porc!
Sento il respiro affannoso, sarà l’altezza. L’asfalto ricompare.
Sono molto in alto, altimetro 2200mt.: “Mi sarò mica perso come al solito?”
Neve a destra, strapiombo a sinistra, risparisce l’asfalto, la strada è sempre più stretta, sassosa, senza protezioni vedo in lontananza che la strada scende, risale, gira intorno alla montagna, sempre senza asfalto.
Scendo per rilassarmi e vedo colare acqua dal cofano, si tratta di liquido refrigerante: ORA SONO NEL PANICO. Le ginocchia tremano davvero, temperatura a circa 10 gradi e sono sudato.
In quel momento il non credente fa un voto a San Crispino (il primo Santo che mi è  venuto in mente) e giuro: se riesco ad uscirne indenne, vendo il camper e torno da mia moglie.
Riparto; metto la prima che non staccherò per tutt’e dieci i chilometri di sterrato che mi separano dal Passo, mi tengo serrato sul lato montagna (spazio di 30 centimetri dai burroni) e, nervi in tensione da violino, avanzo.  
Dieci chilometri in prima, quasi un’ora, poi finalmente: piazzetta, bar e asfalto. Grazie San Crispino.
La discesa sino a Breno è stata meravigliosa.
Dimenticavo: Il giuramento che ovviamente va tolto.
Spiego come si fa: prendere dal frigo un cartone di Rosso San Crispino, versarne 250 cc., berlo in un sorso, richiudere il cartone, riporlo in frigo (il rosso San Crispino si beve fresco). Fatto!  Giuramento sciolto.
Come sono buoni i Santi.

sabato 4 giugno 2011

In terra straniera?

Ho lasciato il percorso dell’oltre Oglio, e la visita dei borghi più belli del Mincio, di cui scriverò in seguito, e ora sono in Valtrompia (Brescia). Sono improvvisamente passato dalla sconfinata pianura Padana e le prime collinette del Garda, all’alta montagna.  Sono a Bòvegno, settecento metri di altezza, piove, e sono in mezzo alle nuvole. 
Prati sopra le case
Ci sono prati che si ergono dietro alle case e il frastuono del torrente Mella giù in fondo. 
Ho fotografato, ma la macchina non ha apertura sufficiente a inquadrare il panorama verticale.
Sento parlare una lingua al cui confronto il tedesco ha un suono dolce, impressionante è che lo sento parlare dai ragazzini.
Leggere la data in dialetto bòvognese
Ci sono cartelli turistici in Italiano, bòvegnese, inglese e tedesco.

Ho sentito il bisogno di dirlo a qualcuno, come fossi fuori dal mio mondo.
Mi sento come il bimbo che cerca la mamma.

venerdì 3 giugno 2011

Jurassic Park

Parco Giardino Sigurtà
Oggi ho visitato il Parco giardino di Sigurtà in quel di Valeggio del Mincio (Verona). Attrezzatissimi! Vetture elettriche con computer parlante (tipo Jurassic Park), oppure trenino con guida on line, oppure Shuttle, (non importa com’é fatto, c’è). Il parco è grandissimo, all’inglese, quindi con prati e zone tematiche, ma quello che mi ha acceso l’anima è un prato immenso, collinare, che degrada verso due laghetti molto affascinanti. Quel prato è una meraviglia della natura, curatissimo, all'inglese, e ci si può camminare sopra.
Recentemente in televisione hanno parlato del camminar scalzi: ovviamente un tempo camminare scalzi era abitudine, oggi diventa una delle tantissime mode fatue. Però oggi ho riscoperto davvero cosa significa e cosa sentivo, quand’ero piccolo, nel camminare a piedi scalzi.
Quell’immenso prato con erba rasata, morbida, fresca:  ho tolto le scarpe ed ho avuto la sensazione di riprendere davvero contatto con Madre Natura. E’ come attaccare una spina anzi di più, l’impressione di  collegarsi con una usb, si prende contatto con il cervello centrale. Bellissimo.
Nb.: provare prima con moquette di casa, parquet o linoleum, poi passare al prato del vicino, e quindi correre nei capi (vedi: Scataron).