venerdì 14 dicembre 2012

Treviso e la Marca


27 agosto, lunedì.

Ore otto e venti sono davanti alla banca e, sprovvisto di qualsiasi documento,  dopo trenta minuti sono fuori col gruzzoletto. Venti metri in là il negozio del mio operatore telefonico, nuova sim e dopo un’oretta anche il telefono è ripristinato (un vecchio telefono trovato nei meandri del camper).

Sono ancora vivo.

 

Parto all’assalto di Venezia come da vecchio progetto, ma uscendo da Mestre un cartello mi indica ‘Treviso, 20 chilometri’. Tanti mi hanno detto sia bella, non l’ho mai visitata e si trova a pochi chilometri da dove sono nato: sto ancora ragionando, ma il camper ha già virato ad ovest, in direzione della Marca.

Trovo, a fianco dello stadio della città,  un’area di sosta attrezzata di scarichi e acqua, tutto gratuito,  a cento metri la lavanderia a gettoni (stavo per cominciare a riutilizzare i calzini meno odorosi), poco più in là un altro negozio del mio operatore telefonico dove vado a bloccare il mio ex Ipad.  

Poco oltre un’altra sede della mia banca. Tutto perfetto.

Treviso è bagnata anche dal fiume Sile che nasce a quindici metri sul livello del mare e a circa venti chilometri da qui. Sfociava nella laguna di Venezia (sfociava perché la Serenissima né ha deviato il corso per farlo sfociare fuori della laguna) ed era una specie di autostrada per il movimento delle merci da e verso  la terraferma. Dall’altro lato della città un altro fiume: Il Botteniaga.
Questi due fiumi si frantumano  in mille canali e canaletti, scorrono in superficie e sotto le case, alimentano mulini ancora funzionanti, rumoreggiano e formano cascate: tutto questo in pieno centro storico. E’ una specie di Venezia, ma l’acqua e pulitissima, corre velocissima e non puzza; si vedono le alghe del fondale scuotersi come bandiere al vento.

Case e monumenti sono chiaramente in stile veneziano ma, anche qui, c’è molto altro: Medioevo, Roma e giù sino alla preistoria.

Treviso è la capitale della Marca, chiamata ‘gioiosa et amorosa’, grazie al cibo, alle bevande ed alle dolcezza delle fanciulle (detto dai poeti n.d.r.), e qui tradotto in: “magnare, chicheti e tanta bea mona”.
 

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