lunedì 30 maggio 2011

Mona

Quando il Regno di Sardegna invase il Veneto ovviamente fece bottino di guerra come era usanza in quei tempi.
 Il Sardo, uomo sostanzialmente pacifico anche se duro di testa, non infierì sui vinti, l’esempio più lapalissiano è il furto delle consonanti. Non le rubarono tutte, ma solo quelle doppie (oggi i sardi a volte usano anche tre consonanti per volta, a causa dell’eccesso causato dal bottino di guerra di quei tempi) .
 Al veneto sono rimaste le consonanti sempre sole. Sono isolate e a volte, anche se presenti, vengono sostituite: esempio la ‘elle’(Bello=Beo) . Altre, che non combinandosi bene, senza doppie,  vennero sostituite con altre, ad esempio la Zeta diventata esse (zappa=sapa).
Credo che in questo vada ricercato l’origine del problema che è tipico del veneto di usare in modo dispregiativo il sesso femminile invece del maschile. Dipende evidentemente dal fatto che nel sesso maschile vi è una doppia consonante, che addirittura è la ‘Zeta’
Si optò quindi per l’altro sesso.
 Dò qui una breve infarinatura linguistica, che spero sia utile ai turisti di lingua italiana che si recassero “Sul Veneto”
It: vaffanculo!  Vnt: va in mona!
It: sei scemo? Vnt: sito mona?
It: non capisci un cazzo! Vnt: no te capisi na mona!
It: Testa di cazzo! Vnt: Testa de mona!
It: Sei incazzato? Vnt: gheto e to robe?
It: Cazzuto (tosto intelligente). Vnt: Casson.
Ricordatevi di bere la birra Pedavena, quella degli Alpini, e cercate, nelle bancarelle delle feste popolari, i Bogoi e i Caraboi, fantastiche lumachine da gustare accompagnate da un bianchino dei Colli Euganei, è il miglior stuzzichino possibile, credete a coloro che hanno inventato lo ‘Spritz’. Le lumachine vanno infilzate con uno stuzzicadenti, estratte in questo modo dal guscio e mnangiate, per questo si dice, di piccolo pasto, 'Stuzzichino'
....Ma ve in mona! 
P.S.: Sappiamo che chi ha trafugato la Gioconda e l'ha portata al Louvre, é stato un Sardo. Ma dai, Mona con due enne!


domenica 29 maggio 2011

Bip-Bip

Il lungo ponte sul Lago di Comabbio.
Oggi ho incontrato Mono-bastone (vedi: Bea Grassa). L’Ho incrociato che tornava dal ponte sospeso e mi dice: Ha visto? Ho preso anche l’altro bastone, purtroppo non era uguale! Bene! Rispondo: si va meglio così? Si benissimo! Mi risponde.
Sono contento, ho contribuito a migliorare la vita di qualcuno, peccato che il bastone vecchio fosse nero e quello nuovo rosso, io ero convinto li vendessero in coppia; ma fa niente dai, viva Milan e continuiamo.
Più avanti incontro quello con la macchinetta che usano nei campi da golf (vedi: Conigliette in tour) e, prima che mi faccia la battuta sui mei bastoni della camminata nordica gli dico: scusi ha visto un paio di sci? Quello mi risponde: si li ho visti piantati in mezzo alla neve! Odio questi simpaticoni che hanno sempre una battuta in più e migliore della mia. Ho scoperto che costui è il proprietario di quegli animali nel recinto dotato di cartello “Fatevi i C….. vostri (vedi sempre: conigliette in tour). E’ chiaramente un bel personaggio.
Questi, con la sua macchinetta da golfisti, stava addentrandosi in un vasto e bellissimo campo rasato.
In questi giorni vedo tantissimi prati tagliati: una meraviglia.
Grandi distese più verdi del prato di casa. Viene voglia di fare una corsa a piedi nudi.
So, naturalmente, che un campo tagliato non è morbido come il prato di casa.
Ricordo comunque che era peggiore il campo di grano. Quei campi bellissimi che, prima della mietitura ondeggiano al vento come le onde del mare, ma che dopo il taglio diventavano aridi campi pieni di aculei. Il più particolare dei campi post raccolto era, comunque, quello del granturco.
Il Granturco è una pianta piuttosto alta, la raccolta si faceva a mano: con un falcetto si recideva il tronco, simile a una canna di bambù, con un movimento dall’alto verso il basso che lasciava la base della pianta, come una specie di lancia tagliente, ancorata con le radici a terra e protesa verso il cielo.
Questi moncherini erano tutti sopra a un lungo dosso, intercalato da una cunetta parallela che serviva per l’irrigazione. Il gioco estremo di noi bambini era attraversare questi campi trasversalmente prendendo il passo giusto per far cadere il piede sulla morbida cunetta, schivando i pericolosi moncherini, che in Veneto si chiamavano “Scataroni”. Numero Quattro, detto anche Scataron, li prendeva di solito in pieno.
E’ ovvio il motivo del soprannome, ma non perché solo lui non riuscisse a schivarli.
Credo che il motivo stesse nel fatto che lui era il “cagionevole di salute” di tutta la nidiata. A parte la Numero Nove (vedi: bea grassa) e il Numero Cinque, eravamo tutti abbastanza secchini, ma comunque sani.
Tutti noi imparavamo presto a gestirci, ci inventavamo i giochi, ci organizzavamo le compagnie, ci si dava da fare, ma lui no, lui era ‘cagionevole’.
Di questo problema si occupò Dio, cioè nostra madre. Trovò tempo, iniziative, e forza per proteggere e aiutare questa creaturina, come il buon pastore che lasciò le altre pecorelle che sapeva al sicuro (più o meno), lei si occupò di lui. Insomma riuscì a crescere un bambino viziato. In mezzo ad altri otto, viziarne uno, perché di salute cagionevole è da Mamma.
Il figlio Numero Cinque nacque solo un anno dopo il ‘Cagionevole’, robusto e in salute perfetta, quindi nostra madre poteva benissimo seguire l’altro meno fortunato (la cosa però segnò Numero Cinque: tre anni fa, mia madre che ne aveva novantotto e Numero Cinque quasi settanta, ci scrisse una lettera pesantissima contro nostra madre che, a suo avviso, non lo amava ma gli preferiva Numero Quattro).
Io ebbi l’opportunità di capire la situazione molti anni dopo, quando ‘Numero Quattro’ il viziatino, decise di voler suonare il pianoforte?
Mio padre spesso, non avendo uova con cui barattare il mezzo toscano, recuperava i mozziconi, li triturava e ricostruiva un sigaro. Tornando da scuola verso fine inverno, sapevo purtroppo che a pranzo mi aspettavano i soliti fagioli che odiavo e che ho ricominciato a magiare a cinquant’anni, tanto ne avevo abbastanza. Nostra madre si vestiva sempre di nero, un po’ perché le donne avevano sempre qualche morto che dovevano ricordare, ma molto perché con tre vestiti neri era ammodo per un anno intero. Non racconto delle economie degli altri familiari, ma, in quella situazione, a quel figliolo con la salute precaria, arrivò “il Pianoforte” e anche l’insegnate di musica.
Quel giorno capii che le donne, particolarmente le mamme, sono come Dio: Onnipotenti.
Il Pianoforte fu portato, addirittura, al piano superiore. Io ricordo solo che era enorme, aprivo le braccia e non riuscivo a premere il primo e l’ultimo tasto; Quando arrivava il periodo dei bachi da seta, questo serviva anche da ancoraggio alle lettiere; un giorno ci salii sopra, ero talmente in alto che da quel giorno sogno sempre di volare.
Mia madre era riuscita a portare a casa un pianoforte! Neanche i Baja, i ricchi del paese, che poi erano i miei zii, avevano il Pianoforte.
Dopo quell’episodio non ho più ricordi particolari sennonché, trasferiti in Lombardia, “Gracile Scataron” si ammalò ancora, ma questa volta vennero uomini in tuta bianca e maschere a disinfettare tutta la casa, penso fosse una cosa seria.
Finalmente arrivò alla santa pubertà e conobbe Giuseppina.
Dov’è Numero Quattro? Da Giuseppina!
Numero quattro ha bisogno di mille lire! Che cosa deve fare? Deve fare un regalo a Giuseppina!
Numero quattro ha comprato un vestito nuovo perché domani c’è la festa da Giuseppina!
Il suo vantaggio fu che smettemmo di soprannominarlo Scataron e lo ribattezzammo Giuseppina. Fece qualche anno il cameriere e imparò lo stile e la portanza. Era il ben vestito, e orgoglioso diceva che così faceva bella figura con Giuseppina.
Mia madre, sorella di venditori di vino, ci avviò al commercio del settore. Avevamo la Topolino per le consegne e quando toccò a Numero Quattro la gestione aziendale, cambiò la Topolino con un Millecento perché doveva caricare Giuseppina. Dire che avesse le mani bucate era un eufemismo, economicamente parlando credo manco avesse le mani.
In quel periodo io andai due anni in collegio per diventare vescovo come il fratello di mio nonno, tornai per il matrimonio di Numero Quattro con ….Carla?
 In un anno fu mollato, pianse conobbe la figlia di un cliente e si sposò. Fu la rivoluzione.
Spendaccione e libertino, diventò parsimonioso e bigotto. In circa quindici anni, tutt’e due lavoratori dipendenti, acquistarono un appartamento in città e uno al mare e l’unico figlio si laureò. Oggi il figlio è un Pezzo Grosso della Caritas.
Quanto al bigottismo, tutti noi abbiamo l’abitudine d’intercalare con ‘va in mona’ o ‘cazzo’, è normale ma, quando c’è lui, padre della Caritas, ci fa il biiiip, come in televisione.
Pensare a come parlava ai tempi di Giuseppina.
Devo ora riaffermare il concetto che le donne sono come Dio, onnipotenti e in questo caso si tratta di una moglie.
Solo un dettaglio: sogno a volte Numero Quattro (non più Scataron e nemmeno Giuseppina ma Bip-Bip), correre tra i campi tagliati di granturco a forte velocità e a strilli di biiip-biiip, beccare in pieno tutti gli scataroni.

Con tanto affetto, carissimo, gracile Numero Quattro.

martedì 24 maggio 2011

Mercoledì é rosso

Il Mercoledì è rosso.


Da questo dato incontrovertibile si deduce che Domenica è bianca. 
Il bianco della domenica è conseguenza vitale dell’evoluzione teocratica della civiltà occidentale ininterrotta, da millenni (due).
Conseguentemente è perfetta la cromatica del martedì che, naturalmente, è viola.
Va subito il pensiero a quella meraviglia del creato che è il giallo, luminoso, solare, caldo, che non può che addicersi al sabato

Ora, un breve riepilogo: Domenica bianca, Sabato giallo, Martedì viola (qualcuno obbietta spesso che sia lilla, dobbiamo essere aperti a nuove argomentazioni quindi accettiamo questa sfumatura), e ovviamente che “Mercoledì é rosso”.
Una corrente di pensiero di estrazione asiatica, vorrebbe il lunedì verde, ma ovviamente è arancio. L’errore in cui sono caduti i grandi pensatori dell’oriente deriva dalla collocazione della stella Sirio. Un tempo veniva confusa con Giove, la prima stella che si nota al tramonto, per questo motivo il grande refuso.

Naturalmente, per giungere velocemente alla dimostrazione che giovedì è verde, ci si deve riferire al Dio Dioniso, che nella sua esistenza pansessuale soleva rompere i vincoli sociali, e le sue feste ci celebravano solitamente il quinto giorno della settimana, che non è il venerdì, solo nel sud dell’Europa si enumera partendo dal lunedì. Gli Inglesi, più conservatori, partono dalla Domenica (Sunday: bianca) e, per conseguenza logica: Lunedì, arancio; Martedì , viola o lilla; Mercoledì è inutile discuterne; Giovedì,  verde, qui nessuno mai ha contestato.
MERCOLEDI' E' ROSSO
Venerdì che ancora non abbiamo preso in considerazione è indubbiamente, incontrovertibilmente blu. Se qualcuno vuole una prova inconfutabile sul fatto che venerdì sia blu, è sufficiente enunciare che “Mercoledì è rosso”.
La natura umana spesso è complessa e difficilmente richiudibile in schemi e confini ben definiti, per cui è successo che qualcuno abbia messo in dubbio che “Mercoledì è rosso”. Costoro sono i malvagi.

Bea Grassa

Passeggiando con bastoni da camminata nordica, incontro un anziano della mia età che, dotato di un solo bastone, m’interloquisce, complice della stessa specialità: né ho preso uno anch’io per provare, e mi trovo molto bene! Mi apostrofa; "Vero, anch’io, e mi sono passati dolori alle spalle e sto tornando in linea!" Rispondo, e approccio un argomento: "Qua, vedo correre tantissime persone, tutte un po’ obese, o fuori peso che corrono stravolte dalla fatica, io credo che il corpo umano sia come una macchina e sfruttarlo facendolo andare al massimo penso significhi danneggiarlo." Vuoi mettere una tranquilla passeggiata con bastoni da camminata nordica e movimento totale e completo dei muscoli, gambe, spalle, addome, e bicipiti, senza eccessivo sforzo. Vero! Risponde. Io vengo da Casale Litta, quatto chilometri al collegamento con i due laghi,  vado sempre sino al ponte dopo Ternate e ritorno a Casale.  Lo informo che c’è il nuovo percorso verso sud, e mi risponde: ”io credo che il corpo umano sia come una macchina e sfruttarlo e farlo correre al massimo significhi danneggiarlo, vuoi mettere, una tranquilla passeggiata…” Guardo più attentamente il mio interlocutore mono-bastone, vedo una spalla più grossa dell’altra, metto una mano di controllo al portafoglio (se ti rubano i discorsi, non si sa dove possano arrivare ...). Fortunatamente siamo a un bivio, lui va a sinistra ed io viro ovviamente a destra. Tutti a me!
Ho continuato il ragionamento da solo. Nella mia vita ho conosciuto il lavoro contadino, ho fatto il muratore, tante fatiche, tanto sudore per guadagnare qualcosa, ma pagare per faticare davvero ho difficoltà a concepirlo.
 Oggi si spende per mangiare troppo, poi si spende per perdere peso accumulato mangiando troppo, e si spende anche per vestirsi da “Perdipeso”. Non si va a correre e basta ma si mette il pantaloncino attillato come se strizzandosi l’intimo si dimagrisse prima, si mette la scarpetta ad alto consumo (monetario, s’intende) magliettina da pupazzetto di carnevale e via a stravolgersi di fatica. Chiedo e dico: non si farebbe prima a mangiare meno?!
Negli anni cinquanta persone fuori peso erano una rarità, erano anzi ammirate giacché ovviamente benestanti, tutti gli altri che non riuscivano a mettere insieme il pranzo con la cena, e che lavoravano sotto il sole quattordici ore al giorno o al gelo d’inverno, sempre per quattordici ore, erano tutti taglia trentotto.

Per questo, quel freddo novembre del cinquantatré non capii subito cosa fosse successo.
Mi svegliò un gridolino felice di mia madre, alzai la testa e, tra le sbarre del lettino, vidi che teneva in braccio qualcosa e mi disse: Guarda è arrivata una sorellina! Annuii e mi girai dall’altra parte, ma in quel momento non capivo cosa ci fosse di così entusiasmante, una sorella c’era già e, a quel tempo mi faceva anche da matrigna (aveva quindici anni in più) poi c’erano gli altri sei fratelli, tutti insieme eravamo in dieci, perché fare undici?
 Il giorno successivo cominciai a capire. Era nata una bambina di cinque chili e seicento grammi. Non era una bambina, ma il simbolo della prosperità, era la prova lampante della potenza di mia madre, centoquarantotto centimetri per trentotto chili, che aveva generato un essere che era il quattordici e sette percento del suo peso. Per anni la sentii dire con orgoglio a tutti quelli che incontrava “Varda che bea grassa” (solo in questo caso riusciva addirittura a dire la doppia esse, vietata per i veneti). Per lei era come un trofeo: una controprova della povertà in cui si viveva e comunque una prova del suo modo di affrontare la vita, “I problemi si risolvono sempre e, come, sarà la Provvidenza a deciderlo.
Una foto mitica è: una bacinella ovale in ferro per il bucato a mano con dentro la nuova venuta pronta per il bagnetto ma con pochissimo spazio per l’acqua; A fianco io a centodieci centimetri, poi un fratello appena maggiore a centotrenta centimetri e mia madre a centoquarantotto, tre immagini semitrasparenti la cui somma di massa corporea era pari a quella della bimba. Sino a quando non venne il momento di andare all’asilo, l’incubo della sorella ‘bea grassa’ mentre io, magro da fame nel mondo, mi perseguitò. Volevo essere grasso anch’io. Un giorno ricevetti un paio di pantaloncini dai cugini ricchi che, senza passaggio per la pipì, sembravano aderire meglio all’addome e a me sembrò che dessero l’aspetto da grasso, e dissi a mio fratello: Guarda che bei pantaloni da grasso! Lui mi rispose: allora non sono per te, toglili.
Venne il giorno dell’asilo e quel "Bea grassa" non era più un complimento, si sa che i bambini sanno essere tremendamente cattivi, e la cosa cambiò.
Mia madre iniziò a descriverla come di ‘osso grosso’ (che mito quella donna). A quel tempo notai che le donne avevano tutte il sedere più grosso dei maschi e pensai avessero il sedere fatto di ‘osso grosso’.
Crebbe, sempre con l’osso grosso, e quando arrivo all’età giusta, venne il problema di dimagrire. Decise di abolire quasi tutto quello che certamente ingrassava: Carne, latticini, dolci. Optò per le insalate con bevuta finale di acqua e aceto. Prendeva un’insalatiera,  mischiava le varie verdure e se le mangiava. Un’insalatiera da verdure, razione da sei persone. Un giorno mio fratello vedendola sempre uguale, sempre un po’ arrabbiata perché non dimagriva gli disse: Anca e vache magna soeo erba e e pesa diese quintai (traduco: anche le mucche mangiano solo verdura ma pesano dieci quintali). Si arrabbiò moltissimo, ma capì, e da quel giorno decise di ridurre le razioni, e qualche lieve risultato lo ottenne.
Cosa voglio dire con tutto questo? Niente, tanto ognuno fa quello che ritiene giusto, ed è bello sbagliare in proprio e non per i consigli degli altri. Ho solo voluto dedicare un ricordo a mia sorella appena scomparsa, so che non se la prenderà, ci volevamo bene.
Ciao!

sabato 21 maggio 2011

Ciucche e Bocce

Dedicato al nipotino.
Tornando dalla camminata chiamata ‘Dei Lavatoi’, e non avendone visitato nessuno, vista l’ora, decisi di visitare quello di Comabbio. Non amo granché visitare luoghi che sono considerati storici, e che ricordo esser stati parte della mia vita, mi fa sentire un po’ vecchio. Ho una mezz’ora di tempo e poco convinto mi avvio. Trovo un luogo davvero carino, ma non si tratta solo di un lavatoio, è un’area a parco. C’é un bar, un piccolo parco per bambini e due parcheggi per auto. C’è una vasta radura collinare ben rasata, dove credo si possa lanciare un nipotino di quasi un anno, che certamente si divertirà da matti nel cadere e rotolare sino al fondo della discesa. C’è un piccolo laghetto con Anatre, Germani Reali, un canneto, e dei cespugli fioriti profumatissimi e, in fondo, “Il Lavatoio” con una piccola area umida, canneto e ranocchi. Visitando il tutto scendo sino al lavatoio, e qui vedo che l’acqua è totalmente coperta di una specie di muggine verde, che conosco molto bene.  Sono tantissimi anni che non vedo quella muggine di cui mio padre amava tanto ricoprirsi, ma andiamo con ordine.
Anno sesto della mia vita, quella sera mio padre inforca la bici e sta per partire, mia madre lo ferma, e gli dice, no! Non andare dall’Osto (all’Osteria) in bici, che poi bevi e torni ubriaco e la potresti rompere e domani mi serve per andare da mia sorella. Mio padre:Tasi Ostia! No a rompo no, sta sera no beo(dire che non avrebbe bevuto era una battuta che ripeteva spesso)! Mia madre forse sentiva che doveva succedere qualcosa, ma era talmente presa di cose da fare, che cedette.
Devi sapere Ale che mio padre che poi è il tuo bisnonno. Non è che fosse tanto più bevitore degli altri, ma anche in quello un po’ era il migliore, come era il migliore nel gioco delle bocce, nel macellare i maiali e nel fare i salami. Questa volta parliamo della prima e della seconda specialità.
A quel tempo in paese c’erano due campi di bocce, no televisione o radio, no internet, no discoteche, insomma c’erano le bocce e poco altro per passare le serate. I soldi erano pochi e, fatto il primo giro di vino, in seguito, chi perdeva pagava, e chi vinceva beveva, e il tuo bisnonno vinceva sempre.
Dopo il primo turno di gare, il perdente in genere tornava a casa sano, mesto e veloce. Il vincente, ubriaco, partiva lento e a volte restava, o bloccato vicino ad un platano, sai quelli che costeggiano tutte le vie della padania, o addirittura cadeva nei fossati di irrigazione, quelli appunto che in primavera si coprivano di quella muggine verde del lavatoio.
Solo al completamento del secondo giro di bocce, il perdente successivo, senza soldi ma sano, per prassi controllava platani e fossi, e, se era il caso informava, chi di dovere, di provvedere.
Sentimmo quindi: Nea (mia madre Elena con elle di troppo e nome troppo complicato)! Jeno (Eugenio, mio padre, troppe vocali da pronunciare insieme) xe in tel foso. Mani nei capelli di mia madre, urlo straziante con chiamata per la raccolta del corpo: dapprima non capivo la disperazione, poiché era prassi ma, quella sera in più c’era la bici, ecco qual era il problema.
Arrivò la prima carriola (quella che si usava per trasportare il letame: pianale lungo e sponda sul lato ruota, insomma tipo sofà) con sopra la bici e, nelle tasche posteriori, trovammo due tinche e un’anguilla che, il giorno dopo, venerdì di magro, mangiammo; dietro la seconda carriola col genitore ben sistemato sull’improvvisato sofà.
Mio padre intontito e coperto di muggine verde (si quella del lavatoio) aveva ancora, sul petto, una ranocchia, da non credere. Forse era rimasto a lungo nel fosso, e questa poteva essere rimasta intontita dai vapori di Clinton, era, infatti, a pochi centimetri dalla sua bocca. Io mi avvicinai, vidi la coppia, e memore delle favole che ci raccontava la nonna nella stalla, vagheggiavo: Se la ranocchia lo bacia, lui diventa un principe e lei una principessa, no! La mamma non sarebbe contenta; Lui diventa una principessa e la ranocchia un principe, non quadra, non saprei dove collocare la mamma; Lui diventa una ranocchia e la rana un principe, si la mamma sarebbe contenta, un principe può comprare un sacco di fagioli per nutrirci. Stavo valutando la cosa, quando sentii: Ocio! Arrivò la secchiata d’acqua, la rana scappò, e mi sembrò avesse strizzato l’occhio tipo ‘ci rivediamo’; mio padre vagamente ripulito dalla muggine cominciò a riprendersi, e io rimasi con la favola in sospeso.
Attesi per molto tempo che lo riportassero sulla carriola con la rana sul petto, ma non avvenne più, (che ci fosse la rana intendo).
Cin Cin

sabato 14 maggio 2011

Cattelan

Oggi è nuvoloso, e approfitto per fare la camminata su Monte Pelada. Controllo sempre che il sole non sia frontale, impedisce la vista. Salgo da Comabbio, una salita da infarto, arrivo alla fontanella sopra il paese e mi giro per ritornare… ma insisto. E’ una collina di quattrocento metri e poco più, ma sembra di dover andare sull’Everest.
Credo vi sia un incredibile humus, perché mi trovo assalito da almeno trenta razze d’insetti diversi, l’ultimo lo vedo perché era piuttosto grosso, lo macello, ma mi lascia un gonfiore che sembra una pista di atterraggio per elicotteri. Monte Pelada dovrebbe significare che il culmine è Pelato, così potrei avere vista panoramica sui due laghi: illuso! Salendo non molto soddisfatto della scelta, noto le radici delle piante che attraversano il viottolo, e mi stimolano un racconto da fare al nipotino. 
“ Stavo camminando nel bosco di Cappuccetto rosso quando, improvvisamente ebbi l’impressione di trovarmi in un mondo diverso, quelle grosse protuberanze sul terreno mi ricordavano la mano rinsecchita di un vecchio, quelle piante ritte sembravano peli, ecc.” mentre così rimuginavo, notai dei tronchi con delle forme strane, che mi stimolavano racconti più raccapriccianti (i nipoti vanno spaventati sennò mica ti rispettano, diceva mia nonna). Fotografai tutto quello che mi sembrava utile al racconto, e mi trovai in fondo alla collina, di fronte alla bacheca su Monte Pelada. Leggo:  Monte e laghi di era glaciale; rocce con incisioni rupestri (non si negano a nessuno); folto elenco di uccelli e animali, tra cui numerose serpi (apro e chiudo il capitolo, pronto con la macchina fotografica, pronto con l’adrenalina, al primo incontro Flash e via: non ho visto nemmeno un lombrico); scoiattoli ecc.  Ma! “Numerosi ceppi e piante cadute, presentano caratteristiche forme in cui sono riconoscibili oggetti, volti, e con fantasia ciò che essa vi detta”.  E mi sembrava! Felice di trovarmi in sintonia con qualche altro fuori di mina come me, mi appresto a fare il giro di ritorno. Stranamente tutte le strade che rifaccio sono le stesse di prima, ma quanto mi sono perso? Ho fatto ottanta foto a soggetti che mi ricordavano qualcosa, ma in foto non funziona. Andateci che davvero sono incredibili.
Il dito della Pro-Zia di Cattelan.
Le urla dei parenti di Munch
Da 'IL GORILLA' di De André: davanti, a bocca spalancata, il giudice; dietro Il Gorilla Soddisfatto; alle spalle la vecchia indispettita ma in attesa.
Famiglia Cattelan a tavola
Piante che si accoppiano
 
Contorsionista








Dettaglio dell'incisione rupestre in 'Venetus Antiquus'

venerdì 13 maggio 2011

Santu Jacu

Sono ancora in quel di Ternate, per completare la cura ‘Camminare e dieta’.  Decido di provare a salire su quella collinetta a fianco di Corgeno. Spero di trovare un buon panorama, la giornata è limpidissima. Imbocco a caso una strada che parte da Varano Borghi e costeggiando la ferrovia sale, la direzione sembra buona. La strada dapprima è asfaltata e ampia, poi attraversato un altissimo ponte a volta in mattoni, inizia a stringersi, inerpicarsi e sparisce l’asfalto, finalmente.  Trovo un incrocio con cartello indicatore blu, con scritto “Mon Chery” con l’Y greca accentata. Mi suona talmente strano che ovviamente mi avvio per le dovute ‘Verifiche del Pensionato’. Scendo e d’improvviso arrivano latrando due cani, e altri due più grossi che mi guardano in cagnesco. Mi fermo, loro si calmano, mi avvicino e non dicono nulla, ma saranno scemi! Scorgo in lontananza un Arco infiorato, degli ampi prati rasati, e infine un essere umano. Faccio cenno e grido: Si può? Questi  si avvicina e in Italiano albanesizzato, gentilmente mi dice di procedere tranquillo, perché “i cani devono pur fare qualcosa” (penso: ecco perché odio i cani, inutili e rompipalle).

Mon Chery
Supero l’arco fiorito e scopro un luogo incredibile, adibito a meeting e matrimoni  con catering, come si usa oggi con le ville antiche. Qui però l’artefice è un signore che ha oltre ottant’anni, e che dal 1958 vive qui. Ha acquistato una piccola vecchia fattoria e in quarant’anni ha costruito un lago, con ninfee, cigni, germani reali, tartarughe oche; una sfilata incredibile di statue e costruzioni esteticamente molto interessanti con cascatella d’ingresso al lago e uscita finale delle acque con ponticello panoramico. Mi fornisce anche il sito web: www.villalaghettomonchery.it.  Tutto costruito da lui, snobbato dai figli, rimarca, che ora forse sono interessati. Fenomeno! La cosa incredibile per me è che questo signore si è dichiarato figlio dello “Strascé”, quello di via Pilatello a Jerago, dietro alla Rejna. Posto che credo di conoscere molto bene.
Neve d'estate
 Esco dal quel piccolo paradiso, benedico(???) i cani e mi avvio da qualche parte, basta che sia in salita.
M’immergo nel bosco, incontro viottoli molto ampi innevati di fiori di robinia, e purtroppo anche lunghe e varie ferite sul terreno causate da una mal collocata pista di ‘moto cross’.
Un cartello indica ‘Monte San Giacomo’. Questo San Giacomo m’ispira. Ricordo con piacere le grandi feste in cui si mangia gratis all’interno della mitica Sardegna, tutte a nome di ‘Santu Jacu’, almeno quelle che ho frequentato io; qualche giorno fa ho capito che Santiago de Compostela è appunto San Giacomo, e suona molto come Santu Jacu. Vabbé, dicevo: salgo questi bei vialetti circondato dai boschi e improvvisamente trovo la Cima. Importanti muri a secco di contenimento, delle scalinate ben tenute in Ciottolato Lombardo, una piattaforma in granito adibito a tavolo indicatore come si usa nei punti panoramici con pavimentazione ottagonale sempre in ciottolato, terrazzo che si affaccia sul bosco e grossa struttura diroccata ma ristrutturata con aria di rudere antico. Si tratta, m’informa un anziano più di me incontrato mentre scendevo, di un’antica trattoria, oggi abbandonata, ove ai tempi si saliva con la macchina, e si facevano grandi pic-nic. Ora la zona è protetta da Lega Ambiente.
Anacondis Bossianus
 Mi sento soddisfatto, è mezzogiorno e mi avvio al ritorno.
Naturalmente scendendo chi posso incontrare? La biscia naturalmente, ma questa volta: io mi blocco, lei pure, io estraggo velocemente la mia Fuji, e la immortalo. Ecco a voi l’Anaconda della Padania. E’ ancora un cucciolo, ma crescerà.
E' meglio che mi nutra, fame da dieta, sto vaneggiando.
Il pomeriggio però un pò mi sono annoiato.

sabato 7 maggio 2011

Gracco

A mio padre,
Dopodomani ci sarà l’inaugurazione dell’ultima parte del percorso ciclo-pedonale di Comabbio, quello mancante da Mercallo a Corgeno. Oggi sono andato a verificare che i lavori fossero conclusi e ben fatti (è il nostro compito di pensionati, lo Stato ci paga per questo), strada facendo in un affascinante angolo del lago tra le ninfee in fiore, ho scorto un grossissimo pesce morto, credo fosse un Siluro.
Ninfee e pesce siluro
Nei laghi del Varesotto vi sono moltissimi pesci, ancora oggi sono molto pretetti dopo la grande opera di bonifica fatta negli scorsi decenni. Ho visto il fiume Brebbia, che collega i laghi di Varese e Comabbio, talmente pieno di pesce da non vedere quasi il fondo. Una domenica mattina c’era una gara di pesca, venti pescatori circa in un tratto di fiume di circa 20 metri, che alla fine pesarono, mediamente, cinque kili di pescato a testa, quasi un quintale in totale, che venne ributtato in acqua.
Non c'é più, come un tempo, la necessità di catturare per sostentamento, ma solo per hobby, addirittura oggi c’è una cultura che antepone l’animale all’uomo, spesso considerato causa di tutti i mali. Tu, che non riuscivi a ‘mettere insieme il pranzo con la cena’, ti meraviglierai, ma oggi è così.
La carne e il pesce si acquistano al supermercato, la vista dei pezzi di carne è associata al piatto che immaginiamo sarà sulla nostra tavola (il pesce non è considerato moltissimo, si vende ancora intero anche con l’occhio vitreo che ti scruta, ma evidentemente non da sensazioni) ma nessuno oggi associa la vista per pezzo di carne all’animale originale: vitello, maiale, coniglio, pollo ecc...
Noi invece ricordiamo benissimo l’occhio grande del vitello che guarda supplichevole in attesa di ricevere il latte, ma lo mangiavamo, raramente perché merce preziosa, ma lo mangiavamo; ricordiamo l’occhio attento e teso del coniglio che aspetta la carota o il fieno, ma lo mangiavamo; o quello del maiale, il più festoso al nostro arrivo con le cibarie, e lui più di tutti lo mangiavamo; il pollo non aveva grandi espressioni se non correre quando gli si portava da mangiare, ma ricordiamo quando dall’uovo che improvvisamente si rompeva dall’interno, ne usciva il pulcino che prima tutto bagnato si muoveva a fatica, poi diventava vivace in quella sua bella peluria gialla e, quando metteva le piume, sapevamo che non sarebbe durato molto.  Ah!  Le oche, quelle che non avevamo nel nostro cortile, ma le aveva nostra zia Italia, quella cattiva. Ricordo con rabbia quelle oche. Alte circa sessanta centimetri, io ottanta, che alla mia vista allungavano il collo, aprivano il becco, facevano versi da Campidoglio e mi rincorrevano. Per dispetto ancora oggi maggio il ‘paté de fois gras’ ovviamente d’oca.
Era insomma per noi naturale allevare animali che, sapevamo, sarebbero finiti sul nostro desco. Ricordo mia madre entrare nel pollaio, tutte le galline avvicinarsi fiduciose, e lei, svelta, ne afferrarne una per il collo e, con un gesto veloce del ginocchio ... Io, fuori del recinto, felice pensavo: bene, domani pollo!
Assistevamo anche all’uccisione del maiale, sotto Natale. Ricordo che tu eri il migliore anche in questo campo, oltre che per fare i salami, giocare a bocce e battere il record di bevute di Clinton (inteso come vino) all’osteria.
E veniamo al ‘giorno del maiale’ oggi direbbero “Pork’s day”. Dopo quel giorno seguiva una settimana di grandi mangiate di maiale fresco, profumi incredibili e strutto che frigge, martondee e braciole, tutti in una grande abbuffata, noi della famiglia gli aiutanti, i vicini, gli amici.
Correva l’anno sesto dalla mia nascita e, ricordo, che l’anno prima tuo fratello maggiore volle fare lui la macellazione, sbagliò il colpo e il maiale fu ritrovato dopo due giorni dissanguato e ormai quasi inutilizzabile. Quest’anno il compito sempre stato tuo, tornava di diritto a te, ma avvenne L’imponderabile.
Il maiale era già stato prelevato dalla stalla e messo sul tavolaccio. Sei uomini lo tenevano fermo, sudati e tesi. Un secchio era pronto sotto il tavolaccio per raccoglierne il sangue. Noi intorno in attesa, mia madre e le zie avevano già portato l’acqua bollente per l’operazione depilatoria, i vicini e tanti altri che facevano pubblico per vedere il Grande Gracco (non il tribuno romano) ma te, il Grande Accoltellatore, mito e leggenda del territorio del Bigolo. Tu, grandioso, al centro dell’arena completavi il rito dell’affilatura del Grande Coltello (erano due giorni che affilavi coltelli), ti aggiustavi il grembiule, ti sistemavi il Borsalino. Evidentemente gustavi il momento, la rivincita, la dimostrazione di seriosa perfezione, sentivi il calore di un pubblico partecipe. Ti stavi dilungando un po’ troppo, e avvenne il fattaccio: vidi mio fratello quello molto più grande, aveva ben sedici anni avvicinarsi a te e prima che tu capissi cosa stesse succedendo ti prese il coltello, inarcò il gomito, si avvicino al maiale urlante e piazzo un fendente preciso, perfetto, secco. Fu come un tiro di Ibrahimovic da metà campo o come il rovescio di Panatta o meglio come il colpo finale del torero Dominguin al toro; fu insomma un colpo perfetto. Evidentemente tuo figlio ti aveva ben seguito, aveva capito, era pronto e sveglio.
 Il sangue fioccava copioso nel secchio, quelli che bloccavano il maiale si stavano finalmente rilassando, eravamo agli ultimi rantoli. Mia madre aveva capito che per qualche giorno non ci sarebbe stata allegria; noi, pubblico, indecisi se applaudire (ma plaudenti) e nostro fratello a braccia alzate, la sinistra aperta in saluto e la destra con il coltellaccio sanguinante sembrava Brave Harth dopo la battaglia. Egli stava raccogliendo il calore del TUO pubblico. Tu, impietrito, fermo, faccia da coitus interruptus.
Era nato un nuovo Gracco. Gli ridasti il saluto solo l’anno successivo quando il maiale del mio settimo anno fu sacrificato alla nostra crescita fisica e morale da te.
Ciao mitico.


lunedì 2 maggio 2011

LA BISCIA

A mia madre.
Percorrendo un viottolo boschivo vicino alla Schiranna di Varese, mi ha attraversato la via una biscia. Ho fatto un salto all’indietro che ha terrorizzato la creatura che velocemente è sparita. Non sono riuscito nemmeno a fotografarla. Io non ho più paura dei rettili, ma la reazione scomposta c’è stata. Ricordo infatti che da piccolo, quando ancora vivevo nel Veneto, tu mi raccontasti di un serpente che uscì da fiume Muson di Padova, entrò in una casa, e all’urlo terrorizzato della Siora, questi si spaventò e cercò rifugio dietro un armadio. Era quel serpente talmente grosso che fece ribaltare il mobile.
Ricordo che per parecchio tempo ebbi paura anche dei lombrichi.
Molti anni dopo, ero con un altro tuo figlio nell’allevamento delle lumache, e trovai una biscia. Era attorcigliata su se stessa, colore marrone e testa squadrata. Superato l’attimo di paralisi, chiamai mio fratello che era duecento metri in là e gridai: ‘ c’è una vipera, mi aiuti a cacciarla? Ricordo che fece tre passi indietro (ducento metri più in là) e mi gridò: Prendi un bastone!
Credo che tu abbia raccontato anche a lui la storia del serpente del Muson.
Ora dico: Mamma! Ma ti pare il caso di raccontare storie simili ad un bambino.  Peggio di nostra zia Italia che ci raccontò la storia per “Poaro Fornareto de Venesia” e io stetti male per una settimana. Ma questa del serpente ci perseguita ancora oggi a tutti noi 9 figli. Che poi, è una storia che tu hai raccontato come vera, ma credimi, fa acqua da tutte le parti. Un’Anaconda in Padania, ma dai!

domenica 1 maggio 2011

Conigliette in tour

Carissimi Riproduttori
                                                                              con lo spirito di solidarietà maschile che dovrebbe sempre accompagnare anche voi, vi propongo qualcosa di semplice tranquillo, ma forse utile.
Ho scoperto il percorso ciclo-pedonale del  lago di Comabbio, è molto vicino, è bello e vi sono cose carine ed interessanti da vedere.


Shampoo
Ci sono,  la Venezia di Comabbio, una serie di canali che si immergono nel bosco e costruiti al tempo in cui qui si prelevava l’argilla per fare i mattoni alla fornace di Mercallo; poi il Bio-lago, sempre a Mercallo, ove si può fare il bagno, prendere il sole e fare tardi al baretto/pub sino all’una di notte; vicino il ponte coperto come a Firenze ma che si affaccia sul Canneto  delle cicogne e dei germani reali con cigno d’ordinanza; il Parco Paradiso in una insenatura del lago con palafitte, attrezzato di baretto con pensilina coperta e Motel.
Il ponte
Poi Corgeno con l’area lido, baretto e parco tenuto molto  bene e, inoltrandosi nel percorso pedonale, l’area di sosta con il monumento allo shampoo e graniti.
Avvicinandosi a Ternate si trova il lungo ponte sul lago con contorno di Ninfee in fiore (ve ne sono un po’ in tutto il perimetro lacustre) e poco più avanti sul tronco che emerge dall’acqua le Tartarughe che si scaldano al sole. Infine il grande parco di Ternate.
Vi consiglio di organizzarvi per fare il giro a piedi, meglio se avete le racchette della camminata nordica e uno zaino.
Non date da mangiare agli animali
Mettete nello zaino alcuni strappi di carta igienica, (non si sa mai, specialmente per le ragazze) almeno uno abbia un binocolo, la macchina fotografica, due panini, tre ceres, meglio, quattro.
Solo alcuni consigli, a Corgeno troverete in un grosso recinto con delle pecore, dei galletti e galline amburghesi, dei cani: non dategli da mangiare.*
Se incontrate un signore in macchinetta tipo quelle dei campi da golf, e vi fa la battuta ‘guardi che ha perso gli sci’, quelli con le racchette della camminata nordica, a nome mio, gli dicano: si guardi dietro e li troverà!

Il motivo di questo giro ve lo consiglio non solo perché ho verificato sia bello, non impegnativo e comunque interessante, ma perché ricordo che molti anni fa, quando avevo l’allevamento di conigli d’angora, mi dettero un consiglio: quando la femmina non ci sta’ ad accoppiarsi, caricatela in macchina, fagli fare un giro, e vedrai che poi funzionerà. E’ vero! Un sistema che ho usato anche con mia moglie, tipo difficile, sapeste la benzina!
Sempre in gamba! Ciao a tutti.
.